Una salita insolita al Monte Morrone della Majella


Un rumoreggiare frenetico durava già da un po’, si espandeva tra le fronde degli alberi senza marcarne una provenienza evidente e si confondeva col nostro passo veloce che triturava gli arbusti e le foglie secche lungo il sentiero. Andava aumentando ad ogni metro percorso, in silenzio ognuno di noi cercava di capirne la provenienza ed il significato e solo la domanda diretta di Luca mi faceva capire che i sensi di entrambi erano concentrati su quell’insolito verso che inequivocabilmente apparteneva ora a qualche animale. Nell’incertezza del momento intuivo che eravamo vicini a vivere un momento insolito, che valesse la pena ricordare e raccontare, forse sorprendente; ricordo solo il gesto di aver messo mano alla macchina fotografica per accenderla. Doveva essere pronta. Poi, ora mi pare in maniera avventata e sprovveduta, mi sono lasciato scappare un “mi sembrano galli” e li cercavo in alto, tra le fronde. Perché in quel momento avevo pensato ai Galli Cedroni? Ma ci sono poi i Galli Cedroni sul Morrone? Infatti non era in alto che dovevo cercare, e non era dei galli quel verso; pochi passi ancora e ci siamo immobilizzati increduli; per fortuna eravamo a favore di vento e non siamo stati avvertiti. Davanti a noi, poco più in basso, ad una quarantina di metri, sono sfilati nella rada boscaglia una decina di cinghiali; cinque o sei cinghialetti dal pelo chiaro striato di nero, che come tutti i cuccioli filavano chiassosi senza una direzione precisa e, subito dietro, tre enormi cinghiali adulti. Non si sono accorti di noi che nel frattempo stavamo cercando di prendere le sembianze dei faggi che avevamo preso a nostra copertura; pensavamo solo di non fare rumore e a scattare foto. Solo dopo ho pensato che se nella penombra della boscaglia fosse partito un solo flash la giornata avrebbe potuto avere una conclusione più adrenalinica!! Per fortuna la luce bastava, il falsh non è scattato. Solo per un momento una delle due femmine attardatasi a grufolare qualche radice si è accorta di noi. Attimi in cui gli sguardi, nostri e suoi, si sono incrociati, attimi in cui solo il nostro respiro si è fermato, non di certo il suo. Per fortuna l’amore figliale ha prevalso, forse la cinghiala non ci ha giudicato un pericolo sta di fatto che da li a poco, con un sopraggiunto maschio nerissimo come la pece, si è persa nel bosco all’inseguimento della prole. Io e Luca abbiamo risentito il sangue scorrere di nuovo ed una nuova leggerezza ritornare alle gambe. Il tempo ha ripreso a scorrere. Poi c’era il Morrone, eccome se c’era! Millesettecento metri di dislivello di sola salita non possono, non meritano di essere taciuti. A dire il vero il salto da compiere doveva essere di poco superiore alla metà di quello patito. Il progetto iniziale prevedeva l’attacco della montagna da Passo san Leonardo o da Caramanico, ma si sa, nel pieno spirito di Aria Sottile, ogni uscita non è mai definita finchè non si è ritornati alla base. Ed in questo caso è stata sconvolta ancora prima di raggiungerla. Usciti al casello autostradale di Sulmona ci siamo diretti verso Pacentro e percorrendo la S.S. 17 per Roccaraso il mio naso era già all’insù, a scrutare quei fianchi scoscesi del Morrone, apparentemente ripidissimi e per questo intriganti. C’era una dorsale,una linea obliqua che saliva tra radure e pochi boschi da evitare sapientemente, direttamente fino alle creste sommitali. Più la guardavo e più mi intrigava. Farla notare a Luca è stato come accendere un fiammifero accanto ad un pagliaio. All’incrocio per Pacentro abbandoniamo la statale, svoltiamo a sinistra ed ora quella linea pura di salita è li davanti a noi che quasi ci chiama. Siamo a Marane, appena poche centinaia di metri percorsi sulla strada principale ed in località Le Conce prendiamo una stradina nella speranza che ci conduca proprio sotto quello che ormai stava prendendo forma di ossessione. Una stradina di campagna e poi una sterrata, si sale e si arriva ad una grande spiazzo chiaramente segnato dall’acqua di scolo che in certi momenti deve assumere in questi posti carattere torrentizio. L’imbocco di quella linea sognata che senza saperlo era anche l’inizio di una carrareccia non riportata dalle carte che sale il fianco della montagna. Non erano ancora le sette di una mattinata tiepida, eravamo fuori dalla macchina col naso all’insù a cercare, senza nessuna convinzione, un solo pretesto per non buttarci in quella avventura non pianificata. Sapevamo che ogni resistenza sarebbe stata vana, ma ci siamo impegnati almeno nel mentirci. Nemmeno l’altimetro che segnava 560 mt s.l.m è servito a dissuaderci. Nemmeno aver pensato al salto allucinante che ci divideva dai 2061 metri della vetta ci ha dissuaso. Ci siamo convinti che l’altimetro fosse tarato male, il punto dove eravamo era fuori dalle carte, non c’era nemmeno la possibilità di tararlo, insomma ci siamo mentiti spudoratamente addosso. Era già nata l’avventura, non sapevamo se si sarebbe conclusa con la conquista del monte ma la voglia di sfidarci, di sorprenderci, di inventare non ci avrebbe più permesso di fermarci. Prendiamo un sentiero tra i rovi, nessun segnale, nessuna traccia, un imbocco dalle sembianze di un tracciato e ci siamo trovati in una selva intricata che dopo un po’ ha preso a salire. Selvaggio e intricato, sarebbe stato impossibile seguirlo per molto ma non ci siamo preoccupati; non ne abbiamo avuto nemmeno il tempo a dire il vero, dopo dieci minuti abbiamo intercettato la carrareccia polverosa. A tratti l’abbiamo seguita fiancheggiando la montagna e dopo ampie svolte ritornando verso la direzione della cresta che volevamo raggiungere; ogni tanto, quando il fianco meno ripido lo permetteva si staccava un sentiero contraddistinto dai segnavia bianco-rossi che saliva diretto verso l’alto, poi si reintercettava di nuovo la carrareccia e così fino al rifugio diroccato del Vellaneto a 1213 mt di altezza. Prima sosta dopo un’ora e venti di ininterrotta salita, in un’ampia radura con stupensa vista sulla vallata di Sulmona. L’erba alta, fiori ovunque e il limitare di una pineta, un luogo idilliaco insomma se non fosse che la cima era ancora ottocentocinquanta metri sopra. Ripartiamo di slancio seguendo una flebile traccia di sentiero tra l’alta l’erba bagnata; ci fa entrare in uno splendido bosco misto, fresco ed ombreggiato. Il sentiero procede di traverso, senza grossi strappi; un lungo camminare senza ombra di attacchi verticali, solo la variazione delle consistenza boschive variava il paesaggio. Ora erano abeti e pini a farci da tetto, i nostri sensi erano pieni di profumi resinosi. Il senso di stare ad aggirare la montagna era forte, ci domandavamo quanto ci fosse ancora prima di attaccare la salita importante e definitiva ma continuavamo a girare intorno al fianco; poi il bosco è mutato ancora, gli abeti hanno lasciato il posto ai faggi, aperture nella vegetazione lasciavano intuire il paesaggio che stava mutando. Ci stavamo infilando all’interno di una valle profonda che ben presto è confluita in un canalone sassoso. Una lingua di pietre ruzzolate a valle si propagava deserta fino a noi. Il sentiero non dava scampo; si era trasformato in una passerella in continuo equilibrio sulla pietraia. Stancati ben presto di quel deserto, all’apparenza senza fine, ci siamo sollevati su un ripido costone all’interno del bosco sui fianchi del Colle dei Cani fino a raggiungere una cresta secondaria ma molto panoramica. Ad accoglierci un tripudio di fiori colorati ed un panorama sempre più vasto sulla vallata di Sulmona. A quota 1700 ci sentivamo ormai nell’anticamera del Morrone, le due gobbe del Cimerone e del già citato Colle dei Cani erano un po’ le nostre colonne e d’Ercole e lassù, quella linea di cresta ci dava l’illusione della meta. Tra le tante gobbe e creste visibili sopra di noi qualcosa non tornava nei numeri; dovevano mancare ancora quattrocento metri da aggredire ma le linee sommitali erano molto più vicine. La sensazione che il Morrone da questo versante fosse la classica montagna che scopri solo dopo l’ultimo dosso si impadroniva di noi. Non rimaneva che salire completamente il dosso dove ci siamo riposati, attraversare la piccola valle che avevamo davanti e percorrere quella sottile linea obliqua che ci avrebbe portato in cresta qualche centinaio di metri più a nord. Lassù avremmo capito, forse, la nostra direzione e saremmo riusciti a fare il punto geografico a vista. Si sono manifestate due vette distinte e separate da una profonda Valle. Quella a sud dava l’impressione di essere più alta, sensibilmente più alta, doveva essere la nostra montagna. Una linea di cresta erbosa la rendeva facilmente raggiungibile ma a metà, stanchi come eravamo ci è venuto il dubbio, i soliti effetti ottici, come tante volte era capitato, potevano ancora tradire le nostre ambizioni. Fuori la carta allora, era anche una scusa per tirare il fiato. E la carta ha tradito solo a metà la nostra scelta; eravamo nella direzione sbagliata per raggiungere il Morrone ma in quella giusta per raggiungere la Cima secondaria , quella che per appena un metro entra nell’elenco dei 2000: Mucchia di Pacentro. Felici di non aver vanificato energie continuiamo verso l’alto, percorriamo tutta la lunga cresta formata da tre cimette pressappoco identiche e riprendiamo verso nord, verso il Morrone, ci fermiamo sulla terza cimetta, quella che forse dovrebbe rappresentare la vetta principale, ci mettiamo sotto vento, al cospetto della Maiella libera dalle nubi ma ancora carica di neve dai 2500 metri in su. Le linee della nostra prossima escursione sono li davanti, quel piano inclinato che da San Nicolao per il Rapina ed il Pescofalcone raggiunge l’Amaro è una linea infinita, intimorisce ed affascina, oscura persino la meta del Morrone a pochi minuti da noi. Le nuvole grigie che salgono veloci i fianchi della montagna da nord e che sbucano filacciose dalle creste del Morrone ci inducono a muovere subito verso la nostra seconda meta. Variamo ancora il percorso, non scegliamo di percorrere la linea diretta, la cresta e la sella che divide i due monti ma ci buttiamo dentro la valle sommitale del Lago della Madonna per raggiungere la cresta est nella speranza di osservare ancora meglio quella linea da sogno della Maiella. Il Lago della Madonna è solo un piccolo pozzo carsico dove si radunano mandrie di cavalli e mucche ad abbeverarsi, le nuvole hanno nel frattempo coperto interamente la Maiella, questa deviazione è servita solamente a farci allungare il percorso. Scontornatala comunque tutta siamo saliti sul Morrone da est, appena in tempo per poter vedere la cima priva di nubi ma accolti da freddissime e violente raffiche di vento. Quello che bastava per non farci desiderare una lunga permanenza. Riprendere la via del ritorno è coinciso compiere e chiudere l’anello delle creste sommitali, di certo un bel modo per poter dire di aver perlustrato a dovere la montagna gemella della Maiella. La discesa è stata per la via dell’andata tranne che per il tratto all’interno del canalone pietroso; poi il bosco di faggi, e quello di pini e poi il vento che a più basse quote ha smesso di sbatterci e poi l’avventura dell’incontro con i cinghiali. Una volata verso il basso ed un massacro per i piedi. Ah, solo una grande dimenticanza nel racconto di questa giornata. Un costante, gioioso, colorato, vario tripudio di fiori ci ha accompagnato per tutto il percorso.